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Ecce Homo

Musei di Strada Nuova
Definizione bene (OGT)
OGTD:
dipinto
Identificazione (OGTV):
opera isolata
Autore (AUT)
AUTR:
esecutore
AUTM:
bibliografia
AUTN:
Caravaggio, Merisi Michelangelo
AUTA:
1571 - 1610
DES
DESS:
Personaggi: Cristo, Pilato, un uomo. Abbigliamento: perizoma; veste scura, cappello; camicia, giacca, benda intorno alla fronte. Oggetti: verga, mantello.
Titolo (SGTT)
Ecce Homo
SGT
SGTI:
Ecce Homo
Inventario di museo o soprintendenza
INVN:
PB 1638
INVD:
1921
INVC:
Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco
DTZ
DTZG:
sec. XVII
Cronologia (DT)
DTZS:
inizio
DTM:
bibliografia
DTSI:
1605
DTSV:
ca
DTSF:
1605
DTSL:
ca
MTC
MTC:
olio su tela
Notizie storico-critiche (NSC)
La tela è registrata per la prima volta a inizio anni Venti nell’inventario di Palazzo Bianco come “Lionello Spada (copia)”, senza indicazione di provenienza; considerata evidentemente di modesto valore, viene trasportata nel 1929 nella villa Cambiaso di proprietà comunale e lì rimane fino alla seconda guerra mondiale. Gravemente danneggiato dai bombardamenti, il quadro è ignorato fino al 1951 quando, nella mostra milanese Caravaggio e i caravaggeschi curata da Roberto Longhi, viene esposta un’altra versione dello stesso soggetto conservata alla Galleria Regionale di Messina (Mostra del Caravaggio 1951, p. 43), ritenuta “copia cruda” ma “abbastanza fedele” di un originale di Caravaggio perduto. Caterina Marcenaro, allora Direttore dell’Ufficio Belle Arti del Comune, identifica la redazione autografa del maestro lombardo nell’Ecce Homo di Palazzo Bianco, che viene, dopo un importante intervento conservativo ad opera di Pico Cellini (1953-54), pubblicato come originale del Caravaggio dallo stesso Longhi sulla rivista “Paragone” nel 1954. La critica successiva accoglie con esiti discordanti l’attribuzione al Merisi; d’altra parte due fattori pesano nel tempo sulla valutazione del quadro: la non integrità dell’originale ductus pittorico del dipinto, che il Cellini descrive dopo i danni bellici come “corteccione fritto e rinsecchito tutto subbolito…” da lui restituito a leggibilità con un restauro integrativo condotto prendendo a modello la copia messinese; dall’altro il mistero sulla storia antica del quadro e sul momento del suo ingresso nelle collezioni del museo. Solo recentemente, infatti, è stato ritrovato un documento d’archivio, datato 1908, che riporta una proposta di acquisto fatta a Orlando Grosso, allora segretario specializzato dell'Ufficio Belle Arti, per opere già appartenute a Giovanni Cabella, tra cui un “Leonello Spada, Cristo mostrato al popolo, buona opera di pittura della scuola bolognese del Seicento conservato in ottimo stato”, così segnalato dallo studioso come il più meritevole di ingresso nelle raccolte comunali (Biblioteca Civica Berio, Fondo Orlando Grosso, Cassetto 21, fascicoli 6-7, pp. 91 r-v). Non è stato rintracciato l’atto ufficiale di acquisizione, ma è probabile poi segua di alcuni anni, e che comunque l’opera venga registrata solo dopo la prima guerra mondiale, finendo per questo inventariata insieme ad altre sopraggiunte nel frattempo, in particolare le numerose tele del legato di Casa Piola (1913) che comprendevano anche molte ‘copie d’autore’ (Besta, Priarone in “Superba ognor di belle Imprese andrai” 2020). Ed è probabilmente per questo che il “Leonello Spada” visto da Grosso diventa “Spada (copia)” nel registro del museo - con la stessa dizione di tutte le altre copie da grandi maestri - e poi, nella seconda versione dell’inventario, più chiaramente una “copia da Spada Leonello”. Non sembra inopportuno riportare l’attenzione proprio sulle complesse vicende di inventariazione del quadro, e sulla successiva interpretazione dei dati inventariali, poiché la notazione ‘copia da Lionello Spada’ è stata poi riportata dalla critica per lungo tempo come ‘copia di Lionello Spada’, leggendo dunque il dato inventariale come la registrazione non di un’opera derivante da un prototipo dello Spada, ma di un’opera di mano dello Spada da un originale del Caravaggio (su questi aspetti Besta, Priarone in c.d.s.). Anche per questo, le successive campagne diagnostiche sull’opera (Gregori, Lapucci 1991; Orlando in Caravaggio e i genovesi 2019; Bonavera in Caravaggio e i genovesi 2019) hanno mirato in modo particolare alla ricerca di segnali di prima invenzione della composizione, riscontrando ‘pentimenti’ che hanno portato a escluderne il carattere di copia, confermando la natura di prima versione del soggetto. Ma è ancora legittimo chiedersi: per mano di chi? L’attribuzione a Caravaggio si è consolidata nel tempo (Spike 2013), anche a motivo della storica identificazione con il quadro dipinto dal Merisi per il nobile romano Massimo Massimi (Barbiellini Amidei 1987) che però, stando ai documenti, avrebbe avuto misure maggiori della tela genovese, pur manomessa nel tempo (Di Fabio 1997; Priarone 2011, pp. 104-105 nota 54). L’ipotesi che si tratti della stessa tela del Merisi poi giunta in Sicilia al seguito di Juan de Lezcano, segretario dell’ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, spiegherebbe secondo alcuni studiosi la presenza della copia messinese; da qui l’opera sarebbe poi passata a Napoli, Madrid e Genova (Vannugli 2009). Dubbi attributivi hanno continuato ad accompagnare il dipinto, che ancora oggi non vede un riconoscimento unanime e che è tornato sotto i riflettori dopo il ritrovamento di un’altra versione autografa dello stesso soggetto, di diversa composizione, comparsa nel 2021 in un’asta madrilena, che più convincentemente potrebbe collegarsi ai documenti prima connessi al quadro genovese (Besta, Priarone in Caravaggio e i genovesi 2019).